Il “diritto penale del nemico” e la dissoluzione del diritto penale

AutorLuigi Ferrajoli
CargoProfessore di Università di Roma, Italia
Páginas87-99

Page 87

1. Due significati della formula “diritto penal del nemico”

Voglio innanzitutto esprimere un senso di disagio nell'affrontare il tema del “diritto penale del nemico”. Il disagio proviene da una sensazione: dalla sensazione che il fatto stesso che una formula suggestiva, magari provocatoria e a mio parere scandalosa come "il diritto penale del nemico" venga messa in circolazione da un giurista autorevole, che su di essa si svolgano convegni e che intorno ad essa si sviluppi, come immancabilmente accade nella comunità dei giuristi, una ricca letteratura1, è sufficiente a concedere ad essa cittadinanza teorica: in qualche modoPage 88 a farla prendere sul serio e a fornire ad essa una parvenza di legittimità. D'altro canto ben conosciamo la capacità espansiva e gli effetti di contagio che sul piano culturale, ma anche legislativo, hanno le formule con cui vengono designate le strategie di controllo penale. Una capacità di contagio e corruzione dell'immaginario penalistico in una duplice direzione: nei confronti di ordinamenti diversi da quelli con riferimento ai quali vengono formulate; nei confronti dei settori più svariati del diritto penale - non solo il terrorismo, ma anche la mafia, la criminalità organizzata, la pedofilia, il traffico di droga - fino ad includere, in quello che sia avvia ad essere l'"impero della paura" esportato dagli Stati Uniti in tutto il pianeta, gli attentati alla sicurezza provenienti dalla piccola delinquenza di strada e di sussistenza. Direi anzi che è soprattutto la delinquenza di strada che sta diventando, negli Stati Uniti il vero 'nemico', contro il quale è stata scatenata una campagna di criminalizzazione della povertà e di carcerazione di massa che ha visto raggiungere la popolazione carceraria statunitense a 2 milioni e mezzo di persone.

Dobbiamo allora domandarci: di che cosa stiamo discutendo quando parliamo di "diritto penale del nemico"? del "paradigma del nemico" nel diritto penale? Io credo che dobbiamo riconoscere, con assoluta fermezza, che stiamo parlando di un ossimoro, di una contraddizione in termini, che rappresenta, di fatto, la negazione del diritto penale: la dissoluzione del suo ruolo e della sua intima essenza, dato che la figura del nemico appartiene alla logica della guerra, che del diritto è la negazione, così come il diritto è la negazione della guerra.

Stiamo discutendo, in breve - per usare l'espressione con cui è intitolato un pamphlet di Raul Zaffaroni - del diritto penale e i suoi nemici2. Giacché la concezione del terrorista, del delinquente come nemico è in grado di travolgere, del diritto penale, tutte le garanzie, dal principio di legalità a quello di colpevolezza, dalla presunzione di innocenza all'onere della prova e ai diritti della difesa.

Sarà allora bene distinguere, di questa formula, due significati, due usi diversi: a) un primo significato, di tipo empirico-descrittivo: descrittivo, si badi, di una perversione del diritto penale, cioè di pratiche punitive e repressive - pensiamo alle gabbie di Guantanamo o alle torture di Abu Ghraib - che si ammantano del nome di diritto penale e che del diritto penale sono invece la negazione; b) un secondo significato, di tipo per così dire teorico, in forza del quale il "diritto penale del nemico" viene presentato e raccomandato come un nuovo "paradigma", un nuovo "modello", siccome tale normativo, di diritto penale.

Ebbene, nella teoria politica e nella teoria giuridica non sempre - anzi quasi mai - si distingue analiticamente il diverso statuto dei due discorsi, l'uno descrittivo, l'altro normativo. Con il risultato che l'uso descrittivo della formula - anziché servire daPage 89 premessa della critica di ciò che si descrive sulla base dei modelli teorici e normativi del diritto penale elaborati da una lunga e faticosa tradizione di conquiste civili e democratiche - si tramuta, più o meno consapevolmente, in un uso normativo o quanto meno in un suo uso in funzione di legittimazione di ciò che la formula descrive.

È la fallacia realistica che affligge buona parte della filosofia politica e giuridica, che scambia ciò che accade con ciò che è giusto o legittimo, politicamente e giuridicamente, che accada, così occultandone il carattere illecito e criminale: l'autolegittimazione in breve come diritto, in nome dell'efficienza, delle pratiche pur in contrasto con il modello normativo del diritto penale. Si tratta, aggiungo, di una fallacia spesso inconsapevole. Suppongo che se chiediamo a Gunther Jakobs se condivide il modello del diritto penale del nemico, ci dirà che semplicemente sta descrivendo il fenomeno, destinato tuttavia ad affermarsi a fianco - o addirittura a salvare - il "diritto penale del cittadino". La distinzione matalinguistica tra "descrittivo" e "prescrittivo", del resto, non fa parte della cultura giuridica e politica funzionalistica. Ricordo che una volta, venticinque anni fa, nel corso di un dibattito svoltosi a Palermo, chiesi a Niklas Luhmann se faceva un uso descrittivo o prescrittivo della sua tesi secondo cui l'individuo è un "sottosistema" del sistema sociale, sicché i diritti del primo sono difesi in funzione della cui conservazione del secondo. Mi rispose che non capiva il senso della domanda. In molta cultura filosofica cosiddetta "realistica" è ancora un postulato l'idea hegeliana che "ciò che è reale è razionale".

2. Il terrorismo penale Il diritto penal come guerra, la guerra come sanzione penale

Cominciamo allora dall'analisi della nostra formula in senso descrittivo. Come al solito nel diritto penale non si inventa mai nulla di nuovo. Lo schema del diritto penale del nemico altro non è che il vecchio schema del "nemico del popolo" di staliniana memoria e, per altro verso, il modello penale nazista del "tipo normativo d'autore" (Tätertyp). E si riallaccia a una tradizione antica e ricorrente di dispotismo penale inaugurata dai crimina maiestatis. Con l'aggravante che esso si è perfezionato con la sua aperta identificazione con lo schema della guerra, che fa del delinquente e del terrorista un nemico da sopprimere ben più che da giudicare.

Il risultato di questa perversione è il modello del terrorismo penale - o del diritto penale terroristico e criminale, inteso "criminale" come connotato non già dei fatti perseguiti ma dello stesso "diritto", a causa delle forme apertamente terroristiche da esso assunte. Abbiamo sentito ciò che ci ha raccontato ieri Fanchiotti sul Patriot Act statunitense e sul modello Guantanamo: la cancellazione per i non cittadini americani dell'habeas corpus, gli arresti e le detenzioni illimitate senza la formale contestazione di accuse, la soppressione delle garanzie processuali, l'istituzione di tribunali militari speciali, il crollo di tutte le garanzie in materia di intercettazioni, di perquisizioni, di arresti e di prove.

La manifestazione più vergognosa di questo diritto penale criminale, quale vero crimine contro l'umanità, è la tortura, che ha fatto la sua funesta riapparizione in questi anni nel trattamento statunitense dei cosiddetti "nemici combattenti" come strumento di acquisizione della confessione e, al tempo stesso, di intimidazione generale. Si tratta di un modello di tortura per molti aspetti opposto a quello praticatoPage 90 in segreto nelle camere di sicurezza e di solito occultato, negato, rimosso e ignorato dalla pubblica opinione. Il suo aspetto più turpe è infatti il suo carattere strategico, ostentato, codificato in appositi manuali3, quale mezzo di intimidazione e mortificazione delle persone e di diffusione del terrore, e addirittura avallato da insigni penalisti4. Solo così si spiegano le spaventose fotografie di prigionieri incappucciati, con le braccia aperte e i fili elettrici pendenti dalle mani, o trascinati al guinzaglio, o accatastati e ritratti nudi e terrorizzati davanti a cani ringhiosi mentre i loro aguzzini ridono, evidentemente sicuri dell'impunità o peggio della legittimità del loro operato.

È' il medesimo modello di terrorismo penale già sperimentato, in ossequio alla dottrina della "sicurezza nazionale", dalle dittature latino-americane degli anni sessanta e settanta5 ed oggi praticato dagli Stati Uniti, in decine di prigioni sparse in tutto il mondo, nei confronti dei sospetti di terrorismo. Il suo scopo è seminare terrore tra tutti coloro che, fondatamente o meno, appaiono sospettabili di connivenza con il terrorismo, e insieme umiliare il nemico come non-persona, fuori dal diritto, che non merita l'applicazione né delle garanzie ordinarie del corretto processo, né di quelle previste per i prigionieri dal diritto umanitario di guerra. Naturalmente le torture non vengono chiamate con il loro nome. Le si chiama "abusi", per non ammettere ufficialmente il crimine.

È nella legittimazione politica di queste pratiche punitive l'atto di nascita del diritto penale del nemico. Alla base dell'identificazione ad esse sottostante del terrorista e del criminale come nemici c'è uno slittamento semantico in funzione di autolegittimazione: la confusione, più d'ogni altra distruttiva del diritto e dello stato di diritto, tra diritto penale e guerra. Questa confusione ha prodotto una sorta di perversa legittimazione incrociata: della guerra, riabilitata come strumento penale di mantenimento dell'ordine pubblico internazionale; del diritto penale del nemico, a sua volta legittimato nelle sue forme terroristiche con la logica della guerra.

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