Kant, l’ordine internazionale e l’integrazione europea

AutorSergio Dellavalle
CargoPesquisador do Instituto Max-Plank, Alemanha, em Direito Público Comparado e Direito Internacional
Páginas98-121

    Il presente lavoro costituisce l’estratto di un più ampio progetto di ricerca sulla “Filosofia del diritto internazionale” condotto dall’autore, insieme al Prof. Armin von Bogdandy, presso il Max-Planck-Institut di Diritto Pubblico Comparato e Diritto Internazionale di Heidelberg e finanziato, tra gli altri, dal Deutscher Akademischer Austauschdienst e dall’Unione Europea (Intra-European-Fellowship). Ad Armin von Bogdandy e al suo gruppo di lavoro devo molte delle riflessioni sistematiche che sono confluite come risultato parziale e provvisorio nel saggio qui proposto.

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Non c’è dubbio che la concezione kantiana del diritto internazionale e cosmopolitico rappresenti una delle più grandi proposte che il pensiero umano abbia saputo formulare in merito alla possibilità e alle condizioni di un ordine di pace internazionale. Ciò è vero innanzitutto dal punto di vista storico, costituendo essa il culmine di una riflessione che si era andata elaborando nei due secoli precedenti e, al contempo, il punto di partenza di tutta una serie di sviluppi successivi. Ma lo è anche in prospettiva sistematica, nella misura in cui l’insegnamento di Kant continua a fungere da stimolo per la scienza normativa delle relazioni transnazionali e a essere fatto oggetto di continue riprese e critiche. Il presente lavoro intende focalizzare l’attenzione su un aspetto specifico, spesso trascurato e tuttavia non marginale, ossia il ruolo che può venire ad assumere – o eventualmente ha già assunto – il processo di integrazione europea nell’ambito di un tentativo di chiarimento della proposta kantiana.

Pur senza pretendere di addentrarsi nel complesso e poliedrico dibattito sull’interpretazione del diritto internazionale da parte di Kant, l’analisi prenderà tuttavia inevitabilmente le mosse da una breve presentazione della sua posizione al riguardo (1.). Come emergerà dal primo paragrafo, la visione kantiana è caratterizzata da una contraddizione irrisolta tra un’esigenza della ragione (la costruzione di un ordinamento di pace globale e vincolante, il quale dovrebbe prendere la forma di una «repubblica universale») e il fatto bruto (ossia la circostanza che le precarie speranze di pace, nella realtà concreta del diritto internazionale, si basano esclusivamente sull’accordo reversibile tra stati sovrani). Di fronte al vicolo cieco rappresentato da questa contraddizione, sono ipotizzabili diverse vie che ci permettano di uscirne senza rinunciare all’orizzonte teorico tratteggiato dal filosofo di Königsberg. Una di queste consiste nel vedere se non sia reperibile materiale empirico tale da dimostrare il progressivo avvicinamento del modello confederale all’ideale di una pace perpetua. Proprio in questa direzione può essere utile prendere in esame più da vicino l’esperienza dell’Unione Europea, senza dubbio il progetto politico che meglio potrebbe farsi carico di un tale processo di avvicinamento. In altri termini, si tratterà di individuare se quanto è avvenuto in Europa negli ultimi cinquant’anni possa consentirci di sciogliere il nodo gordiano di Kant, fornendo alla sua proposta filosofica una forse imprevista concretezza.

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A questo scopo si aprirà un confronto, seppur succinto, con quell’interpretazione dell’integrazione europea che più argomenti mette a disposizione per una simile lettura, ovvero con la cosiddetta “teoria della sovranazionalità”, secondo la quale l’integrazione europea è vista come un modello (possibilmente da imitare) per l’uscita dalla chiusura nazionalistica e quindi, almeno potenzialmente, estendibile a livello globale. Dalla messa in rilievo dei successi e dei limiti dell’esperienza europea in prospettiva globale (2.) – e in particolare dalla constatazione dell’incapacità dell’Europa unita di portare a termine un progetto di pace più che non solo continentale – emergerà la revisione del paradigma concettuale utilizzato da Kant come unica opportunità per salvare l’insegnamento morale e politico contenuto nella sua proposta di pace (3.). Proprio su questo terreno, al confine tra la fedeltà alla sua filosofia e l’esigenza di rivederla per preservarla, si dipanano alcuni dei tentativi più interessanti recentemente intrapresi di una rilettura contemporanea di Kant nella prospettiva di un migliore approccio alla problematica di un ordine transnanzionale di pace e delle condizioni per la sua realizzazione. A una breve disamina delle diverse alternative verrà dedicato l’ultimo paragrafo (4.).

1. La concezione kantiana delle relazioni internazionali tra idea regolativa e modello confederale

La creazione di un ordinamento internazionale1 di pace è per Kant uno dei fini supremi dell’agire pratico. Il superamento del conflitto – nei termini del diritto internazionale: della guerra – costituisce infatti, nell’ottica kantiana, lo scopo primario del passaggio dallo stato di natura alla societas civilis, anzi – come il filosofo afferma esplicitamente – la «pacificazione universale e permanente rappresenta non solo una parte, bensì l’intero fine della dottrina del diritto nei limiti della mera ragione; la condizione di pace è infatti […] quello status che garantisce, sotto il governo della legge, il Mio e il Tuo in un insieme di uomini che vivono gli uni vicini agli altri»2. Due sono le ragioni precipue per cui la pace viene ad assumere un ruolo tanto importante. Innanzitutto il superamento del conflitto esistenziale segna il primo e indispensabile passo per l’instaurarsi della convivenza civile e politica. Ma vi è un secondo motivo, nell’ottica di Kant ancora più rilevante: nella sua visione dell’uomo e del mondo, la pace è anche e soprattutto un’esigenza morale, dal momento che «la ragione moral-pratica pronuncia in noi il suo irresistibile veto: non deve esserci guerra, né quella tra me e te nello stato di natura, né tra di noi in quanto stati»3. Essendo la guerra il più severo ostacolo allo sviluppo morale4, Kant pone coerentemente il conseguimento della pace quale meta ultima ed essenziale di tutto lo sviluppo storico dell’umanità5.

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Una volta appurata la centralità della pace, si pone il problema di come possa essere realizzato il progetto di un ordine internazionale che la garantisca. Ed è a questo punto che la posizione kantiana si fa difficile da definire in modo univoco. In effetti, nei suoi testi sono individuabili due diverse ipotesi, per molti versi in contrasto tra di loro e peraltro non riconducibili a fasi diverse di sviluppo del pensiero del filosofo6. La prima di tali ipotesi consiste nella creazione di una struttura politico-giuridica sovrastatale, retta da norme vincolanti, nella quale vanno in ultima istanza a dissolversi i singoli stati sovrani. La seconda prevede invece una libera federazione – secondo il linguaggio di Kant, ma sarebbe forse meglio dire “confederazione” – di stati sovrani, ovvero di popoli (Völkerbund). La prima ipotesi – comunemente nota con il termine di «repubblica universale [Weltrepublik7 – viene presentata come «idea positiva» e «giusta in thesi»8 con le seguenti parole: “Per stati, nel loro rapporto reciproco, non vi può essere altro modo, secondo ragione, per uscire dalla condizione priva di leggi, la quale non contiene altro che guerra, che […] rinunciare alla loro libertà selvaggia (priva di leggi), accettare leggi pubbliche coattive e costituire così uno stato di popoli [Völkerstaat] (civitas gentium), il quale (ovviamente destinato a crescere costantemente) comprenderebbe infine tutti i popoli della terra.”9

In ragione delle parole scelte da Kant, non vi sono dubbi sul fatto che questa sia la soluzione da lui considerata come preferibile sotto l’aspetto della garanzia della pace e quindi anche, indirettamente, del progresso morale dell’umanità. Solo un ordine costruito su norme vincolanti può infatti sottrarsi stabilmente al ricatto delle molteplici sovranità e degli interessi particolari solo temporaneamente convergenti. Ciò nonostante, alcune importanti considerazioni parlano, agli occhi del filosofo, contro una tale ipotesi, fino al punto da renderla impraticabile. La prima consiste nei rischi per la libertà che egli individua nell’istituzione di un governo universale, più precisamente di una «monarchia universale», in termini più generali di un governo egemonico che, partendo dalla potenza di un singolo stato, finisca per estendersi globalmente. È evidente che qui Kant ha in mente esempi storici di tentativi egemonici globali i quali, proprio per la loro pretesa di appianare tutte le differenze, erano degenerati nel «più terribile dispotismo»10, ovvero in un «dispotismo senz’anima»11. Il fatto tuttavia che questi tentativi siano stati reali e che non meno concreti siano anche stati, in tali circostanze, i pericoli per la libertà, non significa ancora che la Weltrepublik non possa originarsi anche per via di un vero accordo tra pari. Col che questa prima obiezione kantiana viene a perdere buona parte della sua efficacia.

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La seconda obiezione, simile alla precedente, fa riferimento alla necessità di mantenere la pluralità dei popoli, dalla quale deriverebbe secondo Kant anche l’insopprimibile pluralità degli stati. Infatti, “[…] la federazione dei popoli [Völkerbund] non potrebbe essere tuttavia uno stato di popoli [Völkerstaat]. In questo caso vi sarebbe infatti una contraddizione, poiché ogni stato contiene il rapporto di un Superiore (il legislatore) con un Inferiore (colui che deve obbedire, ovvero il popolo), ma molti popoli in uno stato costituirebbero un solo popolo, il che (giacché dobbiamo tenere in considerazione il diritto dei popoli l’uno nei confronti dell’altro, nella misura in cui costituiscono così tanti stati differenti e non devono fondersi in uno stato solo)...

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