Ending life e margin of appreciation nella giurisprudenza della European Court of Human Rights

AutorUgo Adamo
CargoDottore di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali presso l'Università di Pisa.
Páginas257-291

Page 257

Ugo Adamo 1

Recebido 25.5.2016

Aprovado 9.6.2016

Sommario: Il saggio analizza l’apporto giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell’uomo alla vasta tematica del fine vita. La giurisprudenza convenzionale, che ha il suo leading-case nella nota sentenza Pretty e che riconosce un ampio margine d’apprezzamento in relazione a tali tematiche, se inizia con il prendere in considerazione il solo articolo 2 (diritto alla vita), vede ora nell’articolo 8 (qualità della vita) una disposizione in grado di tutelare il diritto a scegliere come e quando morire. La giurisprudenza europea – così come alcuni recenti casi di diritto comparato – dimostra come si stia assistendo ad un ‘cambio di prospettiva’ nell’analisi delle pratiche eutanasiche che, quando sindacate, risultano conformi al diritto alla vita se il loro attivarsi è sottoposto a vincoli e procedure tali da proteggere i soggetti vulnerabili. La sempre più incisiva attivazione del diritto giurisprudenziale palesa, ancor di più, la mancanza in sede politica di un dibattito aperto e non preconcetto sulla tematica dell’eutanasia che inspiegabilmente risulta da sempre assente nei calendari dei lavori parlamentari, anche se ‘qualcosa inizia a muoversi’.

Abstract: The essay analyzes the contribution of the case law of the European Court of Human Rights to the issue of the end of life. The Strasbourg case law, which has its leading-case in the well-known Pretty judgment, recognizes a wide margin of appreciation in relation to these issues. This case law originally took into account the sole Article 2 (right to life), while now it also considers Article 8 (quality of life), a provision able to protect the right to choose how and when to die. The Strasbourg case law – in analogy with what is occurring at comparative law level – shows a new trend; namely, a ‘change of perspective’ in the analysis of the practices of euthanasia. These practices, when syndicated, are seen as consistent with the right to life if their activation is subject to constraints and procedures that protect the vulnerable subjects.

Parole-chiave: Corte Europea dei diritti dell’Uomo; Diritto alla vita; Qualità della vita; Euthanasia; Paternalism.

Keywords: European Court of Human Rights; Right to life; Quality of life; Euthanasia; Paternalism.

Page 258

Introduzione

Nella riflessione che si propone, primario è l’obiettivo di analizzare e fare il punto sulla giurisprudenza di Strasburgo in merito alla conformità alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti Convention in luogo di Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms) del riconoscimento (e della mancata disciplina) delle pratiche eutanasiche (nelle quali rientrano l’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente) negli ordinamenti statuali aderenti alla Convenzione.

La Corte europea (d’ora in poi ECHR, in luogo di European Court of Human Rights) con sede a Strasburgo, in effetti, ha avuto modo – a differenza di quanto accaduto per le diverse corti costituzionali europee – di pronunciare diverse decisioni che hanno avuto come oggetto di giudizio (direttamente o indirettamente) il diritto di morire e la possibilità di trovarne implicita tutela nella Convention.

In Europa, per come si avrà modo di sottolineare, solo alcuni ordinamenti statuali hanno riconosciuto legittimità alla pratica eutanasica (sebbene solo al suicidio assistito e non anche all’omicidio del consenziente), e questi costituiscono senza alcun dubbio di sorta la parte minoritaria dei paesi aderenti alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ci sono alcune questioni, come quelle riguardanti i diritti civili, delle quali i parlamenti nazionali (non solo) europei hanno deciso ‘semplicemente’ di non occuparsi e ciò – secondo le motivazioni comunemente addotte – perché si tratterebbe di argomenti e tematiche eticamente sensibili. Fra le varie argomentazioni spesso impiegate per ‘decidere di non decidere’, vi è quella per cui l’eventuale riconoscimento di nuovi diritti sarebbe comunque ostacolato da una società civile non ancora ‘matura’ per accettarne l’emersione, ma anche quella per cui ci sono problemi ben più importanti ed urgenti che possono e devono essere calendarizzati e discussi e, dulcis in fundo, quella per cui normare su alcune materie genererebbe (quasi come conseguenza naturale) una slippery slope (MANTOVANI, 1988, p. 455), in quanto, una volta consentita giuridicamente una pratica –non prevista o financo esclusa ma ora, appunto, riconosciuta come ammissibile dal ‘nuovo’ diritto –, il passo successivo sarebbe quello di legalizzare altre pratiche moralmente più severamente avversate, che – invece – diventerebbero legittime in re ipsa.

Page 259

Analizzare la giurisprudenza convenzionale il cui oggetto è l’eutanasia e le cui decisioni, per come sottolineeremo, sono state conformative al parametro della Convention, permette di creare un test di conformità a Convenzione che potrebbe essere utilizzato da quei legislatori europei che decidano di muoversi nello stesso senso dei pochi ordinamenti che hanno dimostrato la fallacia delle argomentazioni giuridico-sociologiche contra la legalizzazione dell’eutanasia (CANESTRARI, 2015, p. 63 ss.).

Prima di procedere oltre, però, risulta metodologicamente corretto dare una definizione di eutanasia o almeno specificare qual è il significato – a fronte di un suo plurimo impiego – che sarà adoperato in questo contributo. Intanto, risulta più che opportuno marcare la differenza che intercorre tra l’eutanasia attiva e l’eutanasia passiva, per poter respingere l’impiego di tale ultimo termine ad indicare il rifiuto di un trattamento (già iniziato) e che costituisce una cura salva-vita. Ed infatti, anche se in entrambi i casi la richiesta di porre fine alla propria esistenza muove dal malato, la risposta dell’operatore medico è profondamente diversa nelle due situazioni, in quanto mossa da finalità differenti. Nel primo caso, il fine dell’attività medica è quello di procurare la morte, anticipando l’evoluzione della malattia, nel secondo caso, invece, l’obiettivo è quello di dar seguito ad una richiesta di sospensione delle cure, consentendo il decorso della malattia che condurrà ‘naturalmente’ alla morte. Quindi, le due ipotesi si basano su fondamenti diversi: il rispetto di un diritto al consenso (dissenso) informato (da altri chiamato eutanasia passiva) e il principio di autodeterminazione (eutanasia attiva).

Alla base della domanda di eutanasia vi è la ricerca di una “morte benefica procurata da altri a chi sia affetto da malattia inguaribile a esito letale, su richiesta valida di questi, per porre fine a uno stato di sofferenza considerato dal paziente inutile e intollerabile” (NERI, 2001, p. 57).

Per come si anticipava, diverse, plurime e non sempre coincidenti tra loro sono le definizioni che si possono dare dell’eutanasia (TRIPODINA, 2004, pp. 17 ss.), ma – in questa sede – si prendono in considerazione solo quelle basate in primis sul principio di autodeterminazione. Quindi, per ragionare giuridicamente su tale nozione, è così riassumibile il nucleo essenziale degli elementi che ne devono costituire la definizione: 1. richiesta cosciente e libera da parte di un soggetto malato; 2. espressione del principio personalista e della libera autodeterminazione del soggetto richiedente; 3. raggiungimento di uno stato di

Page 260

malattia talmente grave da essere definito come irreversibile e che comporta che il vivere non sia più accettabile dalla (e solo dalla) persona richiedente la pratica eutanasica.

Ci si rende conto che i criteri appena esposti sono parziali, perché escludono altri casi, come, ad esempio, quelli di eutanasia non volontaria; ma qui si intende prendere in considerazione – per come si vedrà più avanti – esclusivamente quella che va sotto il nome di eutanasia attiva volontaria, escludendo quelle ipotesi di eutanasia non richiesta, ma procurata da un fine altruistico, in assenza di una domanda da parte di soggetti che non sono nelle condizioni di formularla (neonati portatori di grave handicap, persone che vivono in una situazione di incoscienza e di irreversibilità della malattia e che non hanno sottoscritto direttive anticipate di trattamento).

La Corte di Strasburgo inizia ad essere interessata da ricorsi incentrati sul diritto a decidere come e quando morire

Al di là di quanto avviene in alcuni Paesi nei quali vige una disciplina legislativa sul come e sul quando poter decidere (attivamente) sull’interruzione della fase ultima della vita, in Europa non esiste un idem sentire nelle legislazioni dei vari Paesi2 che aderiscono alla Convention. Tenendo fermo questo dato fattuale, si comprende quel self restraint che ha caratterizzato a tutt’oggi la giurisprudenza dell’organo giudiziale preposto a salvaguardia dei diritti contenuti nella Carta internazionale, vale a dire la Corte di Strasburgo, che ha avuto modo di pronunciare diverse decisioni che risultano essere di estrema rilevanza per la materia che qui si tratta.

La prima volta che la ECHR è stata chiamata ad esprimersi su una tematica inerente il fine vita risale al caso Sanles c. Spagna3 (COLUSSI, 2012, pp. 446 ss.; RAZZANO, 2014, p. 63). Ramón Sampredo era un cittadino spagnolo costretto ad una grave disabilità (tetraplegia) a seguito di lesioni irreversibili del midollo spinale causate da un grave incidente. Erano diversi anni (dal 1993) che il sig. Sampredo adiva i giudici spagnoli con la richiesta di non perseguire il soggetto che l’avesse...

Para continuar a ler

PEÇA SUA AVALIAÇÃO

VLEX uses login cookies to provide you with a better browsing experience. If you click on 'Accept' or continue browsing this site we consider that you accept our cookie policy. ACCEPT